11 febbraio 2021 ore 20:15
Cerimonia di commemorazione dell’Ingresso nel Parinirvana di Shakyamuni Buddha
“Monaci!
Sforzatevi di cercare la Via perché nulla in questo mondo é permanente.
Rimanete in silenzio per un po’ perché il tempo passa e sto per entrare nel parinirvana.
Queste sono le mie ultime parole.”
(dall’ultimo discorso di Shakyamuni Buddha ai discepoli, tratto da Hachidai-Ningaku, Gli Otto Grandi mezzi del Risveglio, di Dogen Zenji)
immagine di Wakana Wakachu Kimura
Marco Lienhard al MAO
Nel corso della manifestazione Torino Spiritualità, quest’anno dedicata al tema Respiro, si è svolto sabato 26 settembre al M.A.O. un concerto di Marco Lienhard, virtuoso dello shakuachi, il flauto giapponese.
La musica era accompagnata da alcuni brani letti da Francesco Puleo e scelti dalla rev. Elena Seishin Viviani.
Riportiamo un commento uscito sull’Osservatore Romano, a firma di Roberto Rosano:
“Mentre il maestro suonava il motivo giapponese del Nido della Gru, ci è parso di sentire il verso frignante e dolcissimo dell’uccello dal lungo collo. Francesco Puleo ha letto testi selezionati dalla Rev. Elena Seishin Viviani, tra cui una splendida poesia di Mariangela Gualtieri, che dice: “Ringraziare desidero”, in tanti modi e a tante cose. Ci ha ricordato il Laudato si’: “Ringraziare desidero per la quiete della casa, per i bambini che sono nostre divinità domestiche, per l’anima che consola il mio girovagare errante, per il respiro che è un bene immenso”.
Qualcuno ascoltava tenendo gli occhi chiusi, qualcuno si teneva la mano, qualcuno meditava. Un’esperienza di delicata bellezza.”
Il concerto è stato replicato la mattina seguente, all’alba, e alla magia della musica e delle parole si è aggiunta quella del risveglio della luce, degli uccelli e della città.
L’immagine è stata tratta dalla galleria del sito di Torino Spiritualità.
Buddhismo magazine
Dal mese di Aprile 2020 viene pubblicato un nuovo magazine dell’Unione Buddhista Italiana.
Un altro modo per raccogliere e presentare le tante voci del Buddhismo in Italia e di come, pur nelle differenze, esse siano unite da una visione aperta a tutti gli aspetti della vita e della società.
Potete sfogliarlo e scaricarlo a questo link
Da due, uno
Un matrimonio multiconfessionale tra Torino e Torre Pellice
È forse un teatro il matrimonio?
È un mistero e figura di una grande realtà;
se anche non lo rispetti, rispetta almeno ciò di cui è figura.
San Giovanni Crisostomo
Torino, con la discrezione che le è propria, mette a segno un altro primato di modernità.
Nei giorni 1 e 2 luglio 2017 Diego Daien Zani e Graziella Fallo hanno celebrato un doppio matrimonio con doppia liturgia, rispettivamente cattolica il primo giorno, e buddhista zen il secondo.
Diego, di professione barista, è un assiduo praticante buddhista di Tradizione Zen Sōtō, ha ricevuto l’ordinazione laica (Zaikè) e ricopre l’incarico di responsabile dell’Enku dōjō.
Graziella, invece, è cattolica devota e praticante, e ha manifestato la volontà di sposarsi presso la sua parrocchia, assistita dal suo confessore.
I due sacerdoti officianti sono stati don Corrado Fassio e il rev. Elena Seishin Viviani.
Non si è trattato di un matrimonio misto, poiché le singole liturgie non hanno subito mescolamenti o contaminazioni reciproche. A fare l’unione è stata la coppia medesima, e la celebrazione di due riti diversi consecutivamente.
Uno sposalizio di coniugi e di tradizioni religiose plurimillenarie.
Potremmo forse chiamarlo ‘matrimonio doppio’, in cui due confessioni si sono incontrate e confrontate sul piano dei riti, distinti nella forma, ma accomunati nella sostanza, vale a dire l’impegno reciproco di mantenersi in armonia e unità nel segno di un sacro vincolo.
Il rito cattolico si è svolto nella parrocchia dell’Assunzione di Maria Vergine al Lingotto, mentre la celebrazione buddhista (non ancora equiparata a titolo di liturgia confessionale dall’intesa fra Stato italiano e U.B.I.) si è svolta presso il Tempio Valdese di Prà del Torno, località Angrogna.
Questo rimarchevole dettaglio amplifica decisamente la risonanza dell’evento, e aggiunge un’ulteriore tradizione confessionale alla partecipazione multireligiosa occorsa in questo singolare matrimonio. Chiesa cattolica, Chiesa Valdese e Buddhismo Zen Sōtō si sono dunque incontrati e hanno cooperato affinché le volontà degli sposi di prestare giuramento entro le rispettive dimensioni confessionali fossero rispettate e onorate.
Beninteso, non è la prima volta che sul suolo italiano vengono celebrate nozze miste.
Presso le maggiori città, le tre confessioni monoteistiche (cristianesimo, ebraismo, islam) stanno da tempo cooperando per rendere possibile questo tipo di unioni, per evitare che una delle parti possa rinunciare a valorizzare la propria tradizione, se non addirittura essere obbligata a convertirsi per amore del coniuge.
Né è un esordio la celebrazione di un matrimonio buddhista. È noto che il monastero buddhista Zen Sōtō Shōbōzan Fudenji a Salsomaggiore Terme, da anni pratica liturgie in particolari momenti di passaggio. L’elemento di assoluta novità, e di primato, ancora una volta, subalpino sul territorio nazionale, risiede nel fatto che tre confessioni religiose, distanti per contenziosi storici, pratiche o concetti teologici fondanti, abbiano cooperato affinché tale matrimonio potesse effettivamente essere celebrato.
In sostanza, è la prima volta che si effettua un matrimonio cattolico-buddhista in un tempio valdese, o che un prete zen interviene affianco al parroco per benedire gli sposi in chiesa.
Una vera pietra miliare in tema di convivenza multi-culturale, nonché di modernità applicata alle liturgie religiose, visti e considerati i tempi.
Tale evento denuncia, altresì, una palese richiesta di mantenere, anzi, di far progredire ed evolvere l’importanza del rito nei momenti topici della vita dell’individuo.
Contrariamente a quanto spesso emerge dal dibattito pubblico comunemente inteso, ritualità e modernità non sono poli antitetici nella società in cui viviamo, ma possono benissimo convergere, se non identificarsi e rispecchiarsi vicendevolmente.
Il rito esprime la simbolizzazione del reale nella sua complessità e inemendabilità, e in questa operazione si rende parte integrante del reale esso stesso. Terreno fecondo di analisi antropologica, ma al contempo di sperimentazione, una tradizione religiosa è sempre incarnata in un cammino storico, e non è separata dal terreno sociale, politico, culturale in cui essa si incarna e prende le sue forme.
I caratteri che contraddistinguono l’età contemporanea (individualismo, laicismo, consumismo, multiculturalismo, relativismo, emancipazione delle donne e degli omosessuali) non cozzano, e meno che mai si pongono in antitesi, con la priorità dell’esigenza del rito in momenti significativi di passaggio della vita di una persona.
La base fondante del matrimonio, ben attestata già dal diritto romano, fa leva sulla consensualità cosciente dei coniugi capaci di intendere e di volere, che nessun’altra potestà può avocare o sostituire. La volontà dei singoli, dunque, è il sostrato irrinunciabile. Quanto al significato profondo, comune per le diverse tradizioni chiamate a officiare, è il richiamo alla trasformazione: due singoli diventano una coppia, un unico soggetto.
Il passaggio dalla dualità all’unità non annulla la dualità in quanto tale, ma la supera e le fornisce un’identità in condivisione, un valore e un’istanza superiore che trascende la distinzione individuale.
Tutto ciò non è solo dialettica, né filosofia astratta, ma è sempre stato lessico squisitamente religioso, materia sacra. E il rito, antenato illustre del teatro, è sì spettacolo, ma non può essere rubricato a mero gesticolare scenico, poiché esso è sempre stato il più efficace strumento per trasmettere senso superiore e continuità fondativa della comunità, entro la quale una coppia vive e dichiara il proprio amore e la propria fedeltà “a Dio e al mondo”.
(M.S.)
Vestire l’Abito
articolo apparso sulle Newsletter di gennaio, marzo e maggio 2015
Buddha disse a Mahakashapa: “Benvenuto o monaco!“
E l’azione del Dharma si manifestò istantaneamente,
gli abiti di Kasho e di altri 500 discepoli si trasformano in Kesa
e le loro teste apparvero rasate.
Zoitsu Agan
In questo articolo, presentiamo alcuni stralci della conferenza sull’O-Kesa tenuto dal rev. Kojun Kishigami presso il dojo di Rouen nel novembre 2006, in cui tratta gli aspetti simbolici e di pratica dell’Abito del Buddha.
“Sia il maestro Kodo Sawaki che il rev. Taisen Deshimaru hanno sempre avuto sulle labbra la parola Kesa.
Il Kesa è assolutamente indispensabile a chiunque pratichi il Buddhismo. Secondo la mia esperienza, l’assenza del Kesa o dell’insegnamento sul Kesa può compromettere la pratica. Come sapete, il Kesa è l’Abito usato dai discepoli del Buddha Gautama. Potete considerarlo come una specie di uniforme; ma è soprattutto l’unico Abito indossato dal Buddha.
Nel Theravada, il Kesa è usato come l’unico capo d’abbigliamento dei monaci, e per questo ha un carattere di praticità. Ma quando il Buddhismo fu introdotto in Cina, fu il suo aspetto simbolico ad assumere particolare importanza.
Potete capire quindi perché Dogen Zenji abbia intitolato un capitolo dello Shobogenzo “I Meriti del Kesa” (Kesa kudoku), dove coniuga l’aspetto pratico e l’aspetto spirituale dell’Abito.
[…] Alcuni Kesa hanno cinque bande, altri sette, altri ancora nove e più; e anche se ognuno di essi ha le sue particolarità in termini di forma e uso, l’idea di base è esattamente la stessa.
Questo è un Kesa [mostra un rakusu] – o meglio, un “mini-Kesa”. È dieci volte più piccolo del mio Kesa. Come potete vedere, la banda centrale è rilevata, ciò che consente all’acqua di scorrere dal centro verso destra e verso sinistra, così come l’acqua scorre dalla montagna alla risaia.
Per ottenere questo rilievo centrale, i pezzi vengono sovrapposti dall’alto verso il basso e dal centro verso i lati. In questo Kesa, inoltre, le misure della banda centrale sono doppie rispetto a quelle della banda superiore, e ciò indica lo sviluppo della “Mente di Buddha” in chi lo indossa. Questo Abito viene indossato dai discepoli, ed è impregnato dell’Insegnamento e della visione dell’Universo del Buddhismo.
[…] Quanto al significato del Kesa, questo Abito simboleggia il Risveglio del praticante (gedatsu). Il “Sutra del Kesa” riguarda il satori(3) di chi pratica zazen. Per chi lo indossa, il rakusu dev’essere sufficiente; nonostante ciò, quando il Kesa avvolge l’intero universo, assume un ulteriore significato.
Sebbene esso abbia una forma e segua un modello, chi lo indossa lo percepisce come “senza forma” (muso).
In effetti non simboleggia solo l’intero Universo, ma anche l’Insegnamento (Nyorai kyo) ricevuto dal Buddha. E’ così che si inducono tutti gli esseri a passare dal mondo delle illusioni al mondo del satori. Indossarlo significa avvolgersi nell’Abito del Buddha.
Ho sempre in mente le parole di Kodo Sawaki Roshi: “Rasarsi la testa, indossare il Kesa e praticare zazen: non serve altro!”
Ci sono Kesa di cinque, nove, undici, tredici, quindici, diciassette, fino a venticinque bande. Questo perché più si progredisce nella pratica, più numerose sono le bande. Più il Buddha cresce in me, più aumenta il numero delle bande.
In India, i discepoli del Buddha indossavano Kesa di cinque, sette e nove bande. Erano consentiti tre Kesa, e questi erano i loro unici abiti. In effetti, anche i monaci di oggi dovrebbero avere solo tre Kesa; d’inverno, se necessario, è possibile indossarli l’uno sull’altro. […].
In India, il Kesa a cinque bande viene indossato quando la persona è da sola, sta facendo samu [la pratica del lavoro comunitario N.d.R.] o sta viaggiando. In Giappone usiamo il Rakusu [il Kesa a cinque bande, di dimensioni ridotte a un decimo del grande Kesa N.d.R.] in viaggio e per il samu.
Il Kesa a sette bande è usato per la pratica quotidiana – in altre parole, per lo zazen e per la recitazione dei sutra –. Durante i teisho [lezioni di Dharma N.d.R.], sia chi insegna che coloro che ascoltano indossano il Kesa a sette bande: questo è il modo formale di presentarsi in quelle occasioni.
I Kesa di nove o più bande sono riservati alle cerimonie. Durante le ordinazioni, il monaco officiante indossa il Kesa a nove bande, perché in quell’occasione è considerato rappresentante del Buddha: il godo considera il discepolo come discepolo del Buddha, e non suo proprio discepolo. Io metto la massima enfasi su questo punto!
Lo stesso avviene per la questua, la pratica del takuhatsu. Indossando il Kesa a nove e più bande [dai-e], vogliamo significare che le offerte ci vengono fatte in quanto discepoli del Buddha. Da una parte, le offerte ottenute attraverso la fatica dei donatori è di incoraggiamento alla pratica della Via; dall’altra, viene offerto del cibo per esprimere gratitudine per l’Insegnamento. In questo senso, non è la persona a ricevere le offerte, ma il Kesa stesso.
Recentemente, durante il mio soggiorno alla Gendronnière, al termine dello zazen del mattino, ho notato che alcuni indossavano il Kesa a nove bande; e lo stesso è capitato al Dojo di Parigi. Questo particolare non è sfuggito alla mia attenzione: è un po’ come quando due samurai si osservano con “occhi di aquila”. Mi sono detto: “Forse Deshimaru ha dimenticato di insegnare la differenza tra il Kesa a sette bande e il Kesa a nove bande?”. Ovviamente non ho intenzione di parlare male dell’insegnamento del maestro Deshimaru; magari un giorno avrò l’opportunità di perfezionarlo.
Non ho ancora parlato del Funzo-e, l’“Abito di stracci”. È un Kesa realizzato cucendo insieme pezzi di stoffa di scarto, lavati e tinti. Quando questi scarti vengono riutilizzati, è importante tingerli con un colore neutro. Insisto molto su questo punto. Alcuni si divertono a cucire insieme pezzi di stoffa come se stessero facendo una sorta di patchwork. Me ne è stato mostrato uno alla Gendronnière: qualcuno ha messo insieme stoffe dai quattro angoli del mondo per realizzare un Kesa. Purtroppo mancava un’unica cosa: il vero spirito del Kesa.
Non mi fraintendete, il Kesa non è né un oggetto d’arte, né un oggetto qualsiasi! Alcuni responsabili adorano le decorazioni dorate, o i colori estremi, come il nero o il bianco. È un peccato, specialmente se si tratta di persone che praticano zazen in modo corretto. Così, per favore, cerchiamo di essere umili e facciamo in modo che il gusto personale non contravvenga alle regole.
Dobbiamo rispettare lo spirito del Kesa. In linea generale posso dire che [nel sangha di Deshimaru N.d.R.] i Rakusu e i Kesa a sette bande sono fatti molto bene.
Qual è il materiale giusto per cucire un O-Kesa?
Noi utilizziamo stoffe di poco prezzo, che si possano trovare facilmente.
È necessario che non sia lucida, non abbia motivi ornamentali e che non sia troppo liscia.
A parte ciò, è possibile usare stoffe di lana o di cotone, sintetiche o di seta, non ci sono restrizioni a riguardo. In Mongolia, per esempio, si usano pellami di animali.
È importante, inoltre, che il colore sia semplice e sbiadito; i tre colori primari non sono adatti, e neppure il bianco candido. Il nero non deve essere intenso.
In Giappone tradizionalmente era normale usare abiti neri, ma i discepoli di Kodo Sawaki Roshi fanno attenzione a non usare il nero intenso e preferiscono una tonalità un po’ sbiadita.
So che nella tradizione Theravada, e attualmente anche in Giappone, spesso si fanno degli errori nella scelta dei colori.
I monaci che escono da Eihei-ji indossano generalmente O-Kesa di color ocra tendente al giallo.
Se è un giallo smorzato, è perfetto: non color tuorlo d’uovo, ma un po’ più scuro.
Gli O-Kesa indossati nella tradizione Theravada seguono le caratteristiche del luogo: il loro color mattone è presente nella terra, e quindi è accettabile.
In Giappone, il terreno è ricoperto di vegetali; però, per le Cerimonie, i monaci tendono a considerare l’O-Kesa come un elemento decorativo, e questo non va bene.
In generale, non bisogna pensare all’O-Kesa come all’abito talare dei preti cattolici. L’O-Kesa deve ispirare pace e l’armonia di chi lo indossa con tale spirito.
Noi buddhisti non parliamo in termini di potere; ciò che conta per noi è essere discepoli del Buddha.
Personalmente parto dal principio che dobbiamo riferirci agli antichi testi.
Sawaki Roshi ha riportato in auge l’O-Kesa che era stato abbandonato da tutti.
Secondo la Tradizione, invece, per i discepoli di Kodo Sawaki è stato scelto un colore nero sbiadito.
Ho notato che gli europei cuciono utilizzando perlopiù filo bianco, ma io vi consiglio di usare un filo solo leggermente più chiaro del tessuto. Ad esempio, grigio su tessuto nero, o beige su marrone.
In questo modo, il contrasto è attenuato e risulta più discreto.
Ciò produce un effetto di maggiore calma su chi osserva, rende la cucitura più facile e mette in risalto il motivo delle bande.
Un altro punto da rilevare sono le misure.
In linea generale, l’O-Kesa dev’essere grande abbastanza da coprirvi quando siete seduti in zazen, ma senza farvi inciampare; assicuratevi che non tocchi terra.
La distanza tra le bande dev’essere sempre la stessa. Le bande che rappresentano le risaie devono avere identica larghezza. Tutti gli O-Kesa cuciti dal Maestro Taisen Deshimaru hanno le bande di identiche dimensioni, e così deve essere.
So che, perlopiù, viene acquistato appositamente del tessuto nuovo, però potete anche riutilizzare pezzi di stoffa scuciti e rammendati.
Dovete solo eliminare le parti macchiate o bucate. È questione di buon senso; tagliando via le parti rovinate, bisogna fare molta attenzione, come un chirurgo che asporta le parti malate da un corpo.
Ritagliate le bande, potete procedere a montarle insieme.
Possiamo fare un paragone con l’educazione di un bambino: si comincia dai particolari e si procede verso l’insieme. Si suppone che chiunque indossi un O-Kesa, simbolo dei discepoli del Buddha, non sia persona che faccia del male, e che l’O-Kesa lo protegga.
Chi lo indossa deve quindi averne grande cura. Ecco perché ci togliamo l’O-Kesa quando andiamo in bagno.
Cucire l’O-Kesa richiede dunque saggezza e compassione. È un po’ come costruire una statua del Buddha o un oggetto di venerazione.
Ogni punto dev’essere circa di 3 mm, come un chicco di grano. Chi sa cucire meglio, li fa più piccoli.
In India, si dice che bisogna cucire l’O-Kesa in tanti giorni quante sono le bande: un O-kesa a cinque bande in cinque giorni, uno a sette bande in sette giorni, ecc.
Lo si dice per prevenire coloro che prendono la cucitura come scusa per non sedersi in zazen.
Ma non c’è nulla che vi impedisca dall’impiegarci sei mesi o un anno.
Relativamente alla cucitura di un O-Kesa, non possiamo parlare in termini di bel lavoro o di un brutto lavoro.
Naturalmente alcuni cuciono meglio di altri, ma non è questo che conta; ciò che conta è che ci mettiate il cuore.
(C.G.)
(1) Traduzione dall’inglese della trascrizione pubblicata sul sito web: www.zen-road.org
(2) Kojun Kishigami: ultimo dei cinque discepoli di Kodo Sawaki Roshi (Shuyu Narita, Kosho Uchiyama, Sodo Yokoyama, Sato Myoshin); ricevette la Trasmissione del Dharma da Sawaki Roshi un mese prima della sua morte. Dopo aver praticato ad Eihei-ji, Hokyo-ji, Daie-ji e Seisui-ji, si è insediato a Jinkoan nella prefettura di Mie, dove pratica e insegna zazen e la pratica della cucitura dell’O-Kesa.
(3) Satori: in giapponese “risvegliarsi alla Natura di Buddha”.