Il 10 maggio scorso, in una sala del centro italo-arabo Dar Al-Hikma («Casa della saggezza») si è tenuto un interessante confronto interconfessionale sul tema della venuta del Messia nelle tre principali religioni monoteistiche : Cristianesimo, Ebraismo e Islam.
I relatori che hanno affrontato questo tema erano il nuovo rabbino capo della comunità ebraica di Torino, rabbi Ariel di Porto; don Ermis Segatti, noto teologo nonché storico esponenente del dialogo interreligioso nel capoluogo subalpino; e l’imam di origini piemontesi Abd al Razzaq Bergia.
La ragione di questo incontro consisteva nell’evidenziare la condivisione di un tema cruciale come quello del Messia e della sua prossima venuta (o ritorno) sulla terra.
A modesto avviso di chi scrive, il risultato è stato raggiunto solo in parte, poiché i relatori sopracitati, tutti di considerevole caratura teologica, si sono soffermati più sull’aspetto dotto della questione, vale a dire chiarire il senso storico del ruolo del Messia all’interno della propria tradizione.
Tanto interessante quanto poco nota è la corretta valenza del soggetto messianico per l’Ebraismo, una valenza tutta terrena, contingente e politica, e per nulla così centrale come ci si aspetterebbe.
Non v’è alcun alone di misticismo, né è d’uopo presupporre un contesto escatologico o uno scenario apocalittico, almeno nell’ accezione strettamente veterotestamentaria e talmudica.
Messia, dall’etimo, significa “unto, consacrato” e discende dall’antica consuetudine semitica di ungere con olio profumato (solitamente di nardo) tutto ciò a cui si volesse dare estrema importanza, rimarcandone la prossimità con la sfera del divino, in particolare re, profeti e sacerdoti.
Il Messia, per l’Ebraismo, non è identificabile con Gesù Cristo, ma è piuttosto una grande figura politica, un capo carismatico o una sorta di mediatore internazionale benedetto dal Signore, nel cui nome, e seguendo la sua volontà, restituirà al popolo d’Israele libertà, prosperità e splendore, garantendogli pace e cordialità coi suoi vicini e con il resto del mondo.
Esempio storico di messia par excellence : l’imperatore e fondatore dell’impero persiano achemenide Ciro il Grande (VI secolo a.C.), colui che pose fine alla cattività babilonese facendo rientrare gli ebrei in Palestina, fu per questo indicato a posteriore come Messia, benedetto ed eletto dal Signore nelle Scritture (Isaia 45,1.4-6).
Il piano di cui fa parte un messia, dunque, non è affatto celeste o trascendente, non è un’ipostasi di Dio e non possiede alcun attributo sovrannaturale. È un uomo che opera sul piano degli uomini all’interno del flusso storico, e non al di fuori di esso secondo categorie fissate ab aeterno, sancendo una stretta continuità fra piano della contingenza, del religioso e del politico.
Più dotto ed enigmatico l’intervento di don Ermis Segatti. “L’attesa messianica non c’è non perché non c’è futuro, ma perché non c’è passato. L’attesa non è un fatto di oggi, ma di lungo periodo”.
L’attesa della venuta del Messia, del tutto identificato con Gesù Cristo nel Cristianesimo, è assolutamente centrale e costituisce uno dei principali punti di continuità della tradizione evangelica.
Diverse, secondo il teologo, le tipologie di attesa, scandite da diverse modalità di lettura e interpretazione delle Scritture, e non di facile approccio chiarire come la categoria del messianismo si ponga in relazione con altri aspetti centralissimi per la dottrina cristiana come il mistero dell’Incarnazione, la Passione e Crocifissione, l’Avvento e Resurrezione, l’Assunzione in Cielo, la Parusia e l’Apocalisse (letteralmente dal greco : “svelamento, rivelazione”).
Quante volte nella storia, ricorda don Ermis, si è creduto nell’imminente venuta del Messia perché si è creduto bene di interpretare correttamente i segni dei tempi, o perché, nell’Europa medievale, si identificava l’Anticristo (che precede il Messia) con questo re o quell’imperatore?
Perciò, conclude, “Il problema del Messia è il più vicino, secondo me, alla blasfemia”, proprio per la scivolosità e le tentazioni di strumentalizzazione che questo tema permette da parte di sette fondamentaliste e scaltri politicanti.
L’intervento di imam Bergia è stato non meno denso, ma più tendente rispetto ai precedenti a rimarcare una profonda e intima vicinanza delle tre confessioni del Libro.
Non solo, ma in apertura del suo intervento ha considerato opportuno ricordare come in molte altre religioni è possibile riscontrare un certo nesso tra un atteso rinnovamento cosmico e la venuta di un essere superiore, solitamente divino, che avvia un nuovo ciclo (a tal fine è stata menzionata la figura di Maitreya, il Buddha del futuro che ripristinerà nuovamente il vero Dharma sulla terra, dopo una lunga era di oblio e oscuramento del corretto insegnamento dei buddha).
Ciò detto, per l’Islam la figura di Gesù (“ʿĪsā, figlio di Maria”) è di estrema importanza, seconda solo a quella del profeta Maometto, che chiude per sempre l’era delle rivelazione profetiche.
Gesù è ritenuto profeta e ufficialmente riconosciuto come “sigillo di santità” e, assieme a Isaia, Enoch e Maometto appartiene al gruppo dei profeti “mai morti”, direttamente assunti in cielo per volontà di Allah, chiamati anche “le quattro colonne dell’Islam”, i quattro profeti più importanti che scandiscono le fasi storiche della rivelazione divina agli uomini da parte del dio di Abramo.
Anche l’Islam riconosce Gesù come un Messia, cioè in qualità di arbitro di giustizia o giudice supremo dell’umanità quando verrà il Giudizio di Allah. Non riconosce, invece, al Cristo la natura divina, rigetta la Passione e l’effettiva crocifissione del figlio di Maria, ereditando la cosiddetta interpretazione docetista, la quale ritiene che al momento della morte in croce vi fosse o un sosia o una sorta di ologramma, una mera apparizione (dal greco dokein : sembrare, apparire).
Come già accennato in precedenza, l’incontro ha mostrato le potenzialità di un centro multiculturale attivo e operante, e ha avuto il merito di agire come piattaforma di confronto teologico di alto livello. Ciononostante, il rischio più marcato per questo tipo di iniziative è quello di essere poco attraenti per i non interessati e di rimanere sospesi in una sorta di limbo teologico-accademico.
Lo stesso tenore degli interventi, ad eccezione forse di quello dell’imam, era più improntato a fornire chiarimenti dottrinari in merito alla propria confessione, piuttosto che calarsi nell’esigenza concreta di creare dibattiti tra le diverse comunità di fedeli che in una città come Torino vivono spesso gomito a gomito, ma continuano a essere distanti o ignari delle posizioni dell’altro.
Un dibattito come questo può essere comunque utile non solo a colmare le distanze, ma anche per rafforzare la vicinanza.