(articolo apparso sulla newsletter di novembre 2014) (1)
Il vero Kesa è fatto di nebbia e rugiada.
Il vestire del Buddha è il perdono,
la tolleranza, la flessibilità.
rev. F. Taiten Guareschi,
abate di Shobozan Fudenji
Si narra (2) che Bimbisâra, Rajâ del regno di Magadha, essendosi convertito nel cuore, divenne il protettore di Shâkyamuni Buddha. Uscito dal palazzo in groppa a un elefante al mattino molto presto, cercando il Buddha, vide di lontano un religioso avanzare verso di lui, pensò che fosse un condiscepolo e scese dall’elefante per rendergli omaggio, ma si trattava di un brahmano.
Bimbisâra disse a Shâkyamuni: “L’abito dei discepoli di Buddha deve essere diverso da quello degli adepti di altre Vie, per capire con una sola occhiata”.
Shâkyamuni lo ascoltò in silenzio e un giorno, mentre viaggiava nelle contrade dell’India del Sud con Ananda, proprio all’epoca in cui il riso era stato appena piantato nelle distese d’acqua, contemplando le risaie d’un verde intenso, così belle e ordinate armoniosamente, gli disse: “Si potrebbe fare l’Abito dei discepoli secondo il perfetto e bell’ordine delle risaie”.
Questo è quanto propose ad Ananda che, ascoltando queste parole, individuò la forma dell’O-Kesa, l’Abito del Dharma: un grande rettangolo formato da bande rettangolari, sovrapposte e cucite in orizzontale e verticale in modo tale da richiamare lo schema caratteristico delle risaie.
Metafora dell’acqua che, come l’Insegnamento, scorre dall’alto verso il basso e dal centro verso i lati come nelle risaie, ben espressa nella similitudine di Mokoshitsu nel suo Hôbuku kakushô:
“Così come l’acqua nella risaia nutre le piante che crescono,
la forma dell’Abito esprime l’insegnamento di Buddha
che nutre l’aspirazione del praticante”.
L’O-Kesa divenne l’unico abito del monaco buddhista, il suo segno di riconoscimento e l’unico oggetto, insieme alla ciotola, che gli veniva conferito durante l’ordinazione.
I monaci Theravada lo indossano ancora oggi direttamente sulla pelle, come ai tempi del Buddha, ma quando il Buddhismo si diffuse nei paesi settentrionali (Cina, Tibet, Corea, Giappone, ecc.), le condizioni climatiche molto diverse resero necessario aggiungere altri indumenti, e di conseguenza cambiarono anche, in parte, le dimensioni e la struttura dell’Abito.
In Giappone, poi, si modificò considerevolmente a seconda delle diverse scuole. Tra la metà del XVIII e l’inizio del XIX secolo, due Maestri buddhisti, uno di tradizione Shingon e l’altro Zen, riscoprirono su antichi manoscritti cinesi uno stile denominato Nyoho-e, letteralmente “l’Abito del Dharma del ‘così è'(3)”, e lo riproposero.
Questo stile verrà rivitalizzato e rilanciato nel XX secolo da Kodo Sawaki Roshi, ed è questo lo stile che ci è stato tramandato dal nostro Insegnante il rev. Massimo Daido Strumia e che pratichiamo all’Enku Dojo. (C.G.)
(1) Le informazioni sono tratte da: Diane E. Riggs Fukudenkai “Gazzetta giapponese di Scienze Religiose”, Istituto Nanzan per la Religione e la Cultura, 2004, pp. 311-356;“Muso Fukuden E – Bollettino dell’“Associazione per lo studio e la diffusione del Kesa Nyoho-e”, n. 2, novembre-dicembre 1989.
(2) Jushoritsu, 27° capitolo.
(3) Nyo “tale, così”, Hô “Dharma”. Il “così è” è un concetto chiave del Buddhismo. Vedi, ad es., il capitolo Shôbôgenzo Inmo del Maestro Dôgen.